Dai migranti al dovere di rompere il silenzio

Alberto Negri, Toni Morrison


Summary. From migrants to the duty of breaking the silence. Two witnesses of our times, very different (a journalist expert of Middle East and Africa) and a Nobel prize of the literature describe, the former, the huge changes of our geography and history; the latter the sense of helplessness and dismay when confronted with the everyday news and chronicle, and the duties of citizens and artists.


Non ci è sembrato possibile iniziare il nuovo anno di AIR senza riservare uno spazio ad ascoltare, almeno per un poco, l'eco di quanto abbiamo vissuto, e continuiamo a vivere, da spettatori stupiti e insieme tentati di stanchezza ed impotenza, nelle cronache di tutti i giorni. Ci siamo affidati per questo ad appunti, raccolti da due testimoni, diversissimi tra loro,  per questo ancora più complementari. Il primo è uno dei pochi giornalisti veramente esperti del Medio oriente e dell'Africa, Alberto Negri. Scrive per il Sole 24 ore, giornale ufficiale di Confindustria, non sospetto di estremismi. Le sue mappe, di informazioni e di riflessione, sono una delle poche fonti affidabili che guardano-indicano, al di là delle cronache, alle radici ed ai loro protagonisti, di quanto sta cambiando la nostra geografia e la nostra storia. Il secondo testimone è Toni Morrison, premio Nobel per la letteratura, nera, nata ad Ohio, Stati Uniti. I suoi libri, disponibili in italiano, sono da leggere, tutti, sino al prossimo, in uscita in aprile “God Help the Child”. Con la loro autorevolezza, questi appunti costituiscono la vera sostanza di quel pro-memoria di metodologia che nell'editoriale immagina che anche al mondo infermieristico spetta il diritto-dovere di rompere il silenzio. (NdR)


la rotta dello sviluppo per «salvare» l’africa
Alberto Negri – 21 marzo 2016

• È sulle rotte dei migranti che si costruisce la nuova geopolitica dell’Europa, del Mediterraneo, dell’Africa. Dove sono sprofondati i confini europei a Oriente lo abbiamo visto a Bruxelles dopo l’accordo stipulato con la Turchia dell’impresentabile Erdogan, ex amico di Bashar Assad. A Lampedusa, a Occidente, lo vedono da anni tutti i giorni.
• L’Europa si è infilata con i profughi siriani in un cul de sac. Tanto valeva trattare con Damasco per riprendersi i rifugiati, forse costava meno e gli europei partecipavano alla ricostruzione, parola che immediatamente evoca un inebriante profumo di business e mette tutti d’accordo. Sembra un paradosso, ma riportare a casa i siriani, anche in città distrutte come Homs o Aleppo, è meglio che farli rimbalzare tra l’Egeo e Gaziantep, in improbabili viaggi di andata e ritorno che ingrassano altri, non loro. Ma alla Turchia abbiamo dato la “patente” di Paese “sicuro”.
• L’ipocrisia internazionale tocca livelli parossistici: il regime partecipa alle trattative di Ginevra ma non deve essere “legittimato”, ben sapendo che resterà lì perché al momento non c’è un’alternativa, mentre il veto della Turchia impedisce che siedano al tavolo i curdi siriani, la celebrata fanteria occidentale contro il Califfato ma anche uno dei nodi storici della regione, l’incubo di Ankara per la possibile saldatura con i curdi del Pkk e l’irredentismo dell’Anatolia del Sud-Est.
Definire i profughi un’emergenza va bene per i titoli a effetto dei giornali, ma in realtà loro fanno parte di una complessa questione politica, economica, militare e di sicurezza, di cui l’Europa finge di volersi interessare sotto la maschera deformante della guerra all’Isis. Oggi i migranti attraversano nel Levante e in Mesopotamia frontiere fittizie o contese: percorrono le macerie di un mondo in disfacimento.
• L’Africa fugge dalla povertà ma anche dai conflitti. È in guerra, ma cerchiamo di ignorarlo: ci sono più di 13 conflitti, dal Mali alla Nigeria, dalla Somalia al Sudan, dal Congo al Centrafrica, dall’Egitto alla Libia, e la spesa militare ha superato in questa zona i 50 miliardi di dollari nel 2014. Maggiori fornitori? Usa, Russia, Cina, Germania, Francia, Italia. La sfida più grande naturalmente è la crescente concentrazione di povertà nel Sahel, un’area estesa due volte e mezzo l’Europa, con conflitti segnati sulla sabbia, stati corrotti o inesistenti, sempre agli ultimi posti nelle classifiche dello sviluppo umano, dove c’è stata una proliferazione delle sigle jihadiste. I migranti vengono da terre dove si sono moltiplicati, con le alleanze tra milizie, bande locali e nomadi, i corridoi di tutti i traffici: armi, droga, essere umani. Gran parte della cocaina sudamericana passa da qui: un giro d’affari da 1,3 miliardi di dollari l’anno secondo l’Onu.
• Le stime di Federica Mogherini, alto rappresentante della politica europea, dicono che sono in 500mila sulla sponda Sud ad aspettare per il grande salto. Possiamo dire di conoscerli già. I tempi dei profughi sono diversi dai nostri e nell’attesa vagano per anni tra i deserti del Sahel e le città africane: una clandestinità cronica. Ecco secondo alcuni un buon motivo per sbarcare con i soldati in Libia, dove l’economia del migrante, la tratta di essere umani, rende quanto il petrolio. In un servizio di Sky tv si scopre che il clan che protegge gli impianti dell’Eni fa anche buoni affari con i migranti.
L’Europa per i migranti comincia sempre qui, sul molo di Lampedusa, dove sbarcano centinaia di profughi dalle motovedette della guardia costiera. Ogni alba appare uguale all’altra, simile a quella del 3 ottobre 2013 quando ne morirono 366 nel naufragio di un barcone salpato da Misurata. Fuocoammare non è solo il titolo di un film premiato ai festival. «Abbiamo visto dei fuochi all’orizzonte, sembravano torce – racconta Costantino Baratta, muratore 58 anni – e siamo usciti con la barca: galleggiavano teste nere e occhi sgranati gridando “help me, help me!”. Li abbiamo afferrati ma scivolavano via come saponette, i corpi erano sporchi del gasolio usato per lanciare segnali incendiari con gli stracci. La barca era piccola, cinque metri, ne abbiamo trascinati a bordo 12 e già di vedevano galleggiare cadaveri ovunque. Anche quello di una donna incinta, sembrava morta ma respirava ancora: l’abbiamo salvata. Era eritrea come molti altri: dopo tre anni ci sentiamo sempre, mi ha telefonato anche l’altro giorno dalla Svezia, sta bene».
• È in questo avamposto dell’umanità perduta che arriva la risacca di un intero continente. L’Italia è in prima linea, punta a una politica dei rimpatri, assai difficile da attuare, ma anche alla cooperazione per dare un’accelerazione allo sviluppo africano. Ma se si confrontano gli 1,8 miliardi stanziati dall’Europa per il “Fondo di fiducia” ai “tre più tre” offerti alla Turchia è evidente che c’è un problema. Ci dovrebbe essere una risposta veloce, flessibile, collettiva, all’instabilità dell’Africa per affrontare le cause profonde delle migrazioni. Ma l’Europa risponde con frasi di circostanza: «Non si coopera per buonismo – sostiene Giro – ma per stare al mondo in maniera intelligente». Forse tra qualche tempo non avremo neppure questa scelta.


il dovere di rompere il silenzio
Toni Morrison

• È il giorno dopo Natale del 2004, dopo la rielezione alla Casa Bianca di George W. Bush. Guardo fuori dalla finestra: sono di umore estremamente cupo, mi sento impotente. Poi un amico, anche lui un artista, mi chiama per farmi gli auguri. Mi chiede come va e invece di rispondergli il classico «Tutto bene, e tu?», non riesco a trattenermi dal dirgli la verità: «Non bene. Oltre a essere depressa non riesco a lavorare, a scrivere: è come se fossi paralizzata, non riesco a proseguire il romanzo che ho cominciato. Non mi sono mai sentita così, ma le elezioni…». Prima di potergli dare altri dettagli, lui mi interrompe gridando: «No! No, no, no! È proprio questo il momento in cui un artista deve darsi da fare: non quando tutto va bene, ma nei tempi di paura. È questo il nostro compito!».
Mi sentii stupida per tutto il resto della mattinata, specialmente quando ripensavo agli artisti che facevano il loro lavoro dentro gulag, celle di prigione, letti di ospedale; che fecero il loro lavoro mentre erano perseguitati, esiliati, ingiuriati, messi alla berlina. E a quelli che erano stati giustiziati.
• Dittatori e tiranni inaugurano sempre il loro regno e alimentano il loro potere con la distruzione deliberata e calcolata dell’arte: la censura e i roghi di libri non conformi, le vessazioni e le incarcerazioni di pittori, giornalisti, poeti, commediografi, romanzieri, saggisti. È il primo passo di un despota, che nei suoi istintivi atti malevoli non mostra semplicemente sconsideratezza o malvagità, ma anche capacità di percezione. Questi tiranni sanno benissimo che la loro strategia di depressione consentirà ai veri strumenti del potere oppressivo di prosperare. Il loro piano è semplice:
1. Selezionare un nemico utile – un “Altro” – per convertire la rabbia in conflitto o addirittura in guerra.
2. Limitare o cancellare l’immaginazione che offre l’arte, e anche il pensiero critico di studiosi e giornalisti.
3. Distrarre con giochi, sogni di bottino e temi di superiorità religiosa o sprezzante orgoglio nazionale che nascondono al loro interno passati dolori e umiliazioni.
Le soluzioni gravitano verso l'intervento militare e/o l'internamento: uccidere o imprigionare. Qualsiasi altra azione, in questo clima politico degradato, è vista come un segnale di debolezza. Viene da chiedersi perché essere “deboli" sia diventato un peccato estremo, imperdonabile. Forse perché siamo diventati una nazione tanto spaventata dagli altri, da se stessa e dai suoi cittadini da non riuscire a riconoscere la debolezza autentica, la vigliaccheria dell'insistere sulle armi ovunque, sulla guerra dovunque? Quanto è adulto, quanto è virile sparare contro medici che praticano aborti, bambini che vanno a scuola, passanti, adolescenti neri che scappano? Quanto è forte, quanto è potente la sensazione di avere un'arma omicida in tasca, alla cintola, nello scomparto portaguanti della propria macchina? Quanto è autorevole minacciare la guerra in politica estera semplicemente per abitudine, paura artefatta o ego nazionale? E quanto è patetico? Patetico perché non possiamo non sapere, in qualche recesso della nostra coscienza, che la fonte e la ragione della nostra aggressività inculcata non è soltanto la paura. È il denaro: lo stimolo del profitto dell'industria degli armamenti, il sostegno finanziario del complesso militar – industriale. E quando il dibattito politico è straziato da un'irragionevolezza e un odio così profondi che le offese volgari appaiono normali, la disaffezione impera. I nostri dibattiti, nella maggioranza dei casi, sfigurerebbero anche nel cortile di un asilo nido: insulti, schiaffi verbali, pettegolezzi, risatine, il tutto mentre le altalene e gli scivoli del buongoverno rimangono vuoti.
• Per gran parte degli ultimi cinque secoli, l'Africa è stata vista come un posto povero, disperatamente povero, nonostante sia scandalosamente ricca di petrolio, oro, diamanti, metalli preziosi e così via. Ma poiché quelle ricchezze non appartengono, in larga parte, alle persone che vivono lì da sempre, il continente è rimasto nella mente dell'Occidente meritevole di disprezzo, e saccheggio. A volte ci dimentichiamo che il colonialismo è stato ed è guerra, una guerra per controllare e possedere le risorse di un altro Paese, che significano denaro. Possiamo anche illuderci e pensare che i nostri sforzi per “civilizzare" o “pacificare" altri Paesi non abbiano a che fare con i soldi. Lo schiavismo è sempre stato una questione di soldi: manodopera gratuita che produce denaro per possidenti e industrie. I lavoratori poveri e i disoccupati poveri dei nostri giorni sono come le ricchezze dormienti dell'“Africa coloniale più scura", esposti al furto di salario e di proprietà, posseduti da grandi corporation cancerogene che soffocano le voci dissidenti.
• Nulla di tutto questo lascia presagire un futuro incoraggiante. Eppure mi ricordo quel grido del mio amico in quel giorno dopo Natale: no! È proprio questoil momento in cui un artista deve darsi da fare. Non c’è tempo per la disperazione, non c’è posto per l’autocommiserazione, non c’è spazio per la paura. Noi parliamo, noi scriviamo, noi facciamo lingua. È così che la civiltà guarisce.

Toni Morrison, premio Nobel per la letteratura 1993, nata a Ohio, Stati Uniti, nel 1931, sta per pubblicare in America il suo nuovo romanzo God Help the Child, in uscita il prossimo 21 aprile. Il libro è dedicato al mondo dell’infanzia e alle sofferenze dei bambini, spesso sottovalutate dalla società.