La responsabilità di vivere ‘momenti fatali’


A cura della Redazione


Non c’è dubbio che le sottolineature, i commenti, le raccomandazioni, le paure, le promesse che hanno messo in evidenza la importanza storica della pandemia (del cui tunnel si dice di intravedere la fine), sono state se non il filo conduttore, certo un ritornello tra i più gettonati degli ultimi 18 mesi. Ovunque, non solo in Italia. Ossessivo nella sua ripetitività, il ritornello (nelle più diverse lingue e bocche di esperti, saggi, indovini) era altrettanto e più preoccupante per la sua opacità di ipotesi convincenti di lettura delle implicazioni dell’essere (protagonisti? spettatori? vittime?…) di un inaspettato, prolungato, storico fermarsi.

Questa breve riflessione editoriale (che vorrebbe integrare strettamente i contributi di pp. 87 e 101) non pretende di improvvisare risposte. Propone dopo tanto tempo (non finito) di distanze per non contagiarsi, una presa di distanza di sguardo, per provare a riconoscere e dare nome (= una visibilità che faciliti non solo la memoria, ma la presa in carico) alle responsabilità preannunciate nel titolo. Le parole che seguono hanno una sola caratteristica importante in comune: sono di frontiera e a rischio: a seconda di come le si prendono, portano in direzioni opposte. Sono perciò, tutte, singolarmente e complessivamente, parte di una definizione operativa di responsabilità.


Pandemia. È obbligatoriamente la prima parola; indica la frontiera più drammatica ed evidente: definisce infatti un evento che avrebbe dovuto unificare per solidarietà, vista la sua globalità di rischio. Nulla come la pandemia ha confermato invece che la risposta al rischio si traduce in negazione di universalità: frammentazione, in-comunicazione, contrapposizione, di dati, di strategie, di politiche sono state le caratteristiche dei mesi trascorsi. La richiesta di sospendere – almeno per una volta, dato il peso globale della pandemia – le leggi-brevetti di merci come i vaccini, per rispettare, anche se con ritardo, i diritti umani, è stata proposta, da mesi, dalla maggioranza degli Stati, con il sostegno di tutte le organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite e della comunità internazionale: a tutt’oggi nulla di fatto: prevalgono gli interessi dei ‘proprietari’ (industrie farmaceutiche transnazionali, filantrocapitalisti come Bill Gates e Bezos, gli Stati ricchi come la UE…) La riunione dei G7 che coincide con la chiusura di questo numero ed ha preso le decisioni sull’accesso ai vaccini a livello mondiale, riassume perfettamente la situazione internazionale. Ai poveri si danno, o almeno si promettono per un futuro non ben definito, elemosine: un miliardo di dosi, sapendo che ne servirebbero al minimo dieci volte di più; con scuse che associano allo sprezzo la beffa scientifica: nei ‘loro’ paesi ci si può accontentare di una immunità di gregge dell’ordine del 20%. L’interrogativo esplicitato da un virus su cui continuano le narrazioni più diverse di scienza, fantascienza, politica tocca il paradigma stesso del vivere di oggi.


Ecologia integrale. Il legame stretto tra pandemia, ambiente, clima, modelli di vita è stato uno dei temi più ricorrenti e provocatori per capire quanto successo e guardare ad un futuro altro. La trasversalità di questo richiamo ha incluso dagli scienziati più noti, agli economisti più ‘duri’, agli ambientalisti, ai giovani, fino a Biden nei suoi primi cento giorni… Tutti d’accordo dunque sull’urgenza di correre ai ripari, di rafforzare e rendere più operativi gli accordi che da cinque anni sono stati approvati come imprescindibili per non precipitare l’irreversibilità di cambiamenti climatici che sarebbero una pandemia senza vaccini? La realtà dice che alla certezza-scientifica della diagnosi di rischio e dei modi per almeno ritardarla non corrispondono decisioni efficaci da parte degli Stati e dei poteri economici che usano le energie più contaminanti. Anche questo tema è centrale – con speranze molto precarie – nelle riunioni dei capi di Stato che si svolgono mentre questo testo va in stampa.

Nel piccolo che ci tocca più da vicino, nel PNRR sul quale sembra giocarsi il nostro futuro, anche infermieristico’ (pag. 92), le tracce di una ecologia a misura della universale dignità degli umani e della natura sembrano almeno ben occultate. Ciò che è certo è l’assenza assoluta dell’elemento fondante di una ecologia garante di futuro: il dibattito pubblico, la trasparenza, l’imparare attraverso il confronto e la dialettica. Forse non è un caso che, proprio durante la pandemia, l’esigenza di de-colonizzare (= non farne una disciplina che impone saperi, strategie, costi sostenibili ed accessibili solo nei paesi che stanno sviluppando di fatto un neo-colonialismo) anche la medicina è diventata argomento centrale nelle riviste mediche di maggior prestigio, e nei rapporti della agenzie internazionali. Con una domanda aperta, anche per il mondo infermieristico: a quando, e come, e con che creatività intelligente e sperimentale, questo approccio entrerà nei percorsi di formazione e nella definizione delle mansioni?


Nuove generazioni. La pandemia non era ancora all’orizzonte, quando Greta Thumberg, Fridays for the Future, Extinction Rebellion, avevano detto che le nuove generazioni sono il presente, non un futuro senza tempo. New, next, …al di là della lingua in cui si esprime una responsabilità, il primo indicatore della serietà con cui se ne parla è lo spazio concreto che si dà a programmi di lungo periodo. Sull’educazione anzitutto: perché sia guardata con la dovuta serietà, un settore critico su cui investire molto e a lungo, come l’area che determina il futuro: che deve essere considerata di ricerca, partecipata, sui contenuti e sulla logica generale, non sui dettagli tecnici dei banchi, e pensando che la digitalizzazione sia una risposta universale. La sfida è centrale anche per i ‘nuovi’ ruoli infermieristici. Ma è importante-preoccupante che alle nuove-next generation, il post-pandemia delle istituzioni guardi con la stessa incompetenza, ed ancor più l’assoluta mancanza di investimenti di ricerca che da anni ha caratterizzato tutto l’ambito della scuola.

Che per il mondo sanitario delle professioni sanitarie e sociali, che dovrebbero (ma non sono!) essere centrali in una ecologia integrale (= i tanti contesti in cui si vive sono i determinanti principali della prevenzione e della cura), questo sguardo serio al futuro possa essere un modo non solo di sviluppo interno, ma un’opportunità per lanciare ponti ed alleanze?


Visione-tempo-coraggio-dialettica. Il percorso di responsabilità che si è proposto coincide con la necessaria scelta tra scenari-progetti che corrispondono ad interpretazioni antitetiche delle parole attorno alle quali si è cercato di riassumere il quadro di riferimento nel quale si vive. Come in tutti progetti – specie se imprescindibili, anche se complessi, di lungo periodo – l’ultima parola spetta alla metodologia. E si dovrebbe ormai sapere che i metodi sono la parte più flessibile e meno definibile a priori in una strategia di ricerca: perché devono permettere alla creatività di non autocensurarsi, per produrre conoscenze trasferibili. I quattro termini sopra proposti come un’unica parola definiscono la metodologia per avere almeno una finestra aperta sul futuro. Non dovrebbero avere bisogno di commenti. Dicono tutti una prima cosa: non credete ai contastorie od ai prestigiatori che promettono soluzioni ‘per domani’ (…magari inventando dal nulla, e pronti all’uso, migliaia di infermieri, modello e multiuso, e con quella meravigliosa vocazione alla dedizione che la pandemia ha impresso nella memoria…). E continuano: per fare della vita (degli umani e della natura) il tempo-luogo della pandemia della solidarietà invocata come il dopo di quella virale, occorre avere una visione: un progetto che rende visibile, condiviso, motivante un processo di cambiamento, sul medio-lungo periodo. Esattamente il contrario degli scenari di distribuzione di fondi che rendono disponibili, ragionieristicamente, i tanti miliardi previsti per i prossimi 5 anni (…se si riesce a difenderli dai tanti interessi).

E concludono: non ci sono soluzioni univoche: e tanto meno che si prendono senza una partecipazione-discussione aperta, dialettica, sui valori e non solo sui fondi, in gioco. Piani come il PNRR devono coincidere con la ri-costruzione di un immaginario e di realtà concrete di democrazia. La trasparenza sui rapporti tra pubblico e privato è lo snodo più critico (non solo in Italia). Nel PNRR è quello più evidente ed insieme nascosto: perfettamente manipolato e confondente: con una società civile che viene trasformata in un insieme armonioso di attori, di territori, di comunità: le diseguaglianze, le solitudini, le marginalità hanno per incanto trovato chi le accoglie, digitalizzandole ed affidandole ad accoglienze 24H: ed i centri di eccellenza (nel Nord) sono una terra promessa aperta a tutt*, per garantire una personalizzazione tecnologica che miracolosamente coincide con la più umana personalizzazione della cura.


Per una visione di prossimità e di lungo periodo. Il titolo che si è dato a questo editoriale merita una raccomandazione bibliografica breve, non tecnica, che integra il percorso proposto nella metanalisi (pag. 101). Il primo libro1 è un classico della letteratura. Racconta la Storia (quella con la S) attraverso suoi momenti fatali: imprevisti, creativi e distruttivi. Come lo è stata la pandemia. L’autore – un’intelligenza troppo acuta, per non vedere il fondo di tenebre della seconda guerra mondiale, e del nazismo – diventa un migrante verso il nulla. La seconda lettura2 è di una donna, nera, premio Nobel della letteratura: espressione perfetta del momento fatale in cui la negritudine, paradigma di tutte le diversità, è raccontata come qualcosa che deve essere non solo ricordo delle vittime e dei loro eroismi, ma come parte imprescindibile dell’immaginario di tutt* (amatissima) per vincere le discriminazioni di ogni tempo in cui capita di vivere.



BIBLIOGRAFIA


1. Zweig S. Momenti Fatali. Milano: Adelphi, 2005.

2. Morrison T. Amatissima. Milano: Sperling e Kupfer, 2013.