Guida all’audit clinico


Benché l’audit sia uno dei temi introdotti dalla VRQ (Verifica e Revisione di Qualità), QA (Quality Assurance, Clinical Governance, Risk management), mancava ancora un testo che ne facesse una messa a punto informativa, ma anche critica, dello stato dell’arte, potenzialità e limiti, analizzandone anche le implicazioni giuridico-legali.



Come sottolinea Alessandro Liberati nella prefazione, l’audit ha diverse finalità e non va inquadrato solo nell’ambito del risk management, ma anche come strumento per fare ricerca e ne distingue tre tipologie:
l’audit routinario, che descrive l’attività di un’azienda o il raggiungimento di uno standard generale di qualità. Può far emergere fenomeni anomali, sia positivi che negativi (numeri elevati di dimissioni protette, degenze eccessivamente prolungate, elevati tassi di ricoveri),
l’audit clinico che entra nel merito dei fenomeni anomali per ipotizzare-trovare le cause,
• l’audit interventistico, utilizzato per misurare barriere, impatto, esiti ottenuti. È la ricerca che le aziende dovrebbero condurre.
Geddes sottolinea come l’audit sia uno dei possibili approcci al miglioramento della qualità. Finalizzato alla ricerca di ciò che è errato, ma anche di ciò che va bene. È un processo di revisione strutturata tra pari che ha l’obiettivo di individuare le opportunità di miglioramento e di introdurle nella pratica quotidiana. Quindi non si limita alla descrizione di ciò che non va (o va bene) ma deve andare oltre.
La presentazione dell’audit parte dall’assunto che esista una forte sovrapposizione tra audit ed attività di ricerca, perché entrambi partono da un interrogativo e cercano (o dovrebbero cercare) una risposta che influenzi la pratica clinica.
Per questo (come per la ricerca) l’audit non è un’attività che si possa improvvisare: occorre pianificazione, esperienza, definire delle regole (e l’esperienza riguarda anche la metodologia della ricerca e la conoscenza degli studi epidemiologici). Cominciare ad esaminare un problema per cercare di risolverlo crea aspettative: per questo è fondamentale che chi dirige l’audit sia responsabile anche di attivare e sostenere i miglioramenti. Questo richiede un mandato da parte dell’Azienda, ma soprattutto molta costanza e perseveranza: elementi indispensabili per evitare che tutto il lavoro fatto cada nel vuoto. Pertanto non può essere (ci sono lodevolissime eccezioni) un’attività spontanea ma ci deve anche essere il sostegno da parte dell’azienda (per i tempi da dedicare, per il coinvolgimento degli operatori, per il sostegno nei cambiamenti).
Condurre un audit richiede delle regole (ed a come farlo viene dedicato molto spazio). Si sottolinea l’importanza di una serie di accorgimenti: dalla scelta della sede per la prima riunione, a come esporre il problema, cercando di creare un clima che non metta a disagio i partecipanti (ad esempio invertendo il giro di chi deve prendere parola in modo che chi ha parlato per primo parli per ultimo e viceversa), esplicitando il mandato, facendo una sintesi finale che espliciti le scelte fatte ma faccia anche chiarezza sui tempi, e scrivendo un report finale.
La parte più interessante (e divertente) che fa vedere come metter in pratica i principi esposti nella prima metà del testo (e la varietà di situazioni e contesti in cui farlo, sono i cinque esempi di audit, che vedono come protagonisti anche gli infermieri e riguardano problemi e contesti diversi: errata identificazione del paziente da trasfondere, la gestione delle lesioni da decubito (ospedale); l’antibiotico profilassi perioperatoria (reparti chirurgici); la mancata somministrazione della vaccinazione antitetanica (Pronto soccorso); la gestione del paziente diabetico (medicina generale). È un libro sia per chi si avvicina all’audit, ma anche per chi ha esperienza, per la chiarezza dei contenuti e la concretezza con cui vengono affrontati i temi esposti.

Senza parola. Storie di afasia


“Queste sono le storie di Andrea e Marta che hanno avuto la vita spezzata in due. C’è un prima e un dopo; prima sono persone “normali” (...) poi improvvisamente succede qualcosa di terribile. Andrea entra in coma per un ematoma intraparenchimale, Marta subisce una serie di interventi chirurgici per lo svuotamento di ripetuti ascessi cerebrali. Entrambi si ritrovano con il braccio e la gamba destra paralizzati e non più in grado di parlare e di capire: sono diventati emiplegici e afasici!”



Anna Basso, neurologa, comincia così il libro che descrive le storie di due persone che sono diventate afasiche, e comincia a delineare l’impatto devastante di questa menomazione, che toglie la capacità di parola. In base al tipo di lesione cerebrale si può perdere la capacità di trovare le parole che occorrono, vuol dire parlare di una tigre ma non ricordarne il nome; o non trovare le parole per spiegare di cosa si sta parlando; o perdere la capacità di mettere insieme le parole per formare una frase, o esprimere parole che risultano incomprensibili all’interlocutore. Vuol dire anche non essere più in grado di scrivere (o leggere): si leggono le parole senza capirne il significato; si scrivono frasi senza capire il senso delle parole, o usare la struttura grammaticale di una frase. In altre parole, afasia significa essere tagliati fuori dalla normale vita di relazione, dai contatti con gli altri.
Anche per questo non è facile poter leggere storie raccontate da chi ha vissuto l’afasia, e con pazienza tanto coraggio e amore per la vita, è riuscito a recuperare, lentamente e con tanta fatica, una quasi normalità.
Andrea è un giovane di 27 anni, laureato in scienze di comunicazione, giornalista, che entra in coma per la rottura di una fistola atero-venosa; Marta è un’insegnante elementare di 39 anni, madre di tre bambini. Entrambi, dall’oggi al domani, perdono la parola, la capacità di parlare, comunicare con i loro cari, interagire con gli altri. Entrambi descrivono la storia di frustrazione, la fatica di recuperare cose che noi consideriamo scontate (chiamare mela una mela, e sapere che stiamo parlando di una mela).
Fa impressione vedere il diario di Marta, con una calligrafia da bambino di terza elementare, che descrive in due righe un lungo percorso di sofferenze “Finalmente, dopo un anno e otto mesi di attesa, ho potuto ricominciare a parlare. Che strazio, non mi posso spiegare, io ho tutto in mente (almeno, mi sembra!).
Dicevo ai bambini: bagno! capelli! Denti.
Mesi e mesi dopo: il bagno! I capelli! I denti!
Adesso: fai il bagno!
O leggere lo strazio di Andrea che ricorda come combatteva con le parole “Quello che mangiavo magari mi piaceva ma anche qui c’era un altro problema, una cosa stupida: non sapevo semplicemente i nomi, come si chiamavano (...) c’era una gran confusione in testa. La frutta era palla per me. Susine? Palla. Arance? Palla Pesche Palla, palla e vai così, la palla lo dicevo sempre!” E gli esercizi estenuanti con il diario, al supermercato: andare al supermercato, leggere il nome scritto accanto ai frutti, ricopiarlo su un diario, e ripetere l’esercizio, 7 giorni su 7, per imparare ad associare il nome all’immagine per ricominciare a ricordare.
Andrea e Marta ce l’hanno fatta a raccontare. Tanti-troppi altri non arrivano a questo punto, e continuano a vivere senza riuscire ad esprimere quello che sentono. Anche per questo l’afasia è poco conosciuta: proprio perché chi l’ha vissuta non è riuscita a raccontare quello che si prova. E proprio per questo, leggere questo libro aiuta a capire un mondo poco conosciuto. E aiuta a capire. Un libro che non dovrebbe mancare nelle biblioteche dei corsi di infermieristica, e che dovrebbe essere una lettura obbligatoria di quanti assistono persone afasiche.