Zan, Zendegi, Azadi - Donna, Vita, Libertà


Gianni Tognoni

Fondazione IRCSS Ca’ Granda - Ospedale Maggiore Policlinico, Milano

Per corrispondenza: Gianni Tognoni, giantogn@gmail.com


Speriamo tanto che le tre parole che danno il titolo a questo commento editoriale vengano riconosciute, prima e al di là della loro traduzione: sono in lingua farsi, arrivano dalle piazze, dalle prigioni, dalle università… dell'Iran. Negli ultimi mesi sono state trasformate da parole comuni, che si mescolano con noncuranza nei discorsi più diversi, in un progetto, in un movimento, in un sogno che dalle ragazze-donne ha contagiato e coinvolto tutto l'Iran, fino a diventare il simbolo che più di ogni altro può essere preso come finestra di futuro e di civiltà dell'anno 2022. Anno che, altrimenti, avrebbe avuto come indicatore tragico di regressione e di inciviltà la guerra che dal 24 febbraio 2022 è diventata la protagonista senza aperture di speranza degli scenari dell'Europa, e non solo.

La 'rivoluzione' iraniana non può essere qui riassunta in tutti i suoi aspetti complessi di politica, religione, squilibri geopolitici. Sarebbe bello se la repressione che rischia di farsi ogni giorno più feroce non la soffocasse. Un augurio 'minore', come quello di un editoriale di un giornale di ricerca in campo sanitario, può solo esprimere una speranza-augurio, provando a dire perché una rivolta così lontana deve entrare a far parte della memoria e dello sguardo del mondo infermieristico, anche e proprio in un tempo in cui le domande senza risposta sono già tante nella società italiana che vive tempi non facili un po' in tutti i campi, e specificamente nella sanità, nella scuola, nel lavoro.

Il primo, e forse unico, motivo è molto semplice: la frontiera tra la civiltà-dignità e la barbarie, in tutte le sue forme. Se alle parole comuni si nega il diritto inviolabile di cittadinanza, di visibilità concreta, di presa di parola, di ricerca di libertà, la vita di una società perde il suo senso: e tutto ciò che è negazione della vita diventa possibile. La rivolta-resistenza diventa obbligatoria. Non solo nei contesti che più direttamente sono colpiti e interessati, ma ovunque. Perché le parole comuni possono avere senso e tradursi in realtà unicamente se non hanno confini e appartengono a tutte/i. E la loro violazione è possibile solo perché può moltiplicarsi e prendere le più diverse forme nel mondo soprattutto perché coloro che si sentono 'proprietari' dei loro diritti preferiscono il ruolo di spettatori di fronte a non importa quale orrore.

Le donne dell'Iran gridano forte, dando la loro vita, per ricordare e rendere visibili quelle dell'Afghanistan – delle tante tratte, dentro e fuori le infinite migrazioni –, del Rojava, dello Yemen, dei Rohingyas, del Kashmir. E sappiamo bene che la lista potrebbe continuare. Tanto da sembrare ripetitiva, anche se vorrebbe solo richiamare alla memoria che ogni repressione tocca e cancella persone vive e che non si ripetono nella loro unicità. E che parlare di donne significa dare visibilità e chiedere priorità per tutte le popolazioni che gli squilibri esistenti e crescenti (basta pensare, in Italia, agli indicatori di povertà) destinano a essere proprietà di qualche potere, ed essere perciò escluse dal diritto di essere soggetti e titolari autonomi delle parole comuni.

Il contributo in questo numero che parla dei minori di Gaza, permanentemente esposti alla 'malattia della guerra' e della esclusione, sottolinea che i confini dei territori dove le parole comuni sono proibite sono molto estesi, e sono considerati lontani-altri, anche se sono, tutti i giorni, infinitamente vicini.1

Il tempo della pandemia, soprattutto (o forse solo?) ai suoi inizi, era stato un tempo in cui la prossimità era stata una scoperta, e le promesse e gli impegni di fare della cura l'indicatore più importante del diritto alla salute, al di là di tutte le linee guida e le restrizioni economiche, erano entrati nel linguaggio di tutti i giorni.2 Anche questa rivista ne ha molto parlato: non senza tanti dubbi sulle possibilità di una rivoluzione culturale pianificata per decreto, sul breve periodo, non toccando nessun potere, anche se da tutti dichiarata ovvia, e perciò certa.3

Ci sono ormai pochi dubbi sul fatto che la sanità continui a essere restia a riprendere sul serio le sue parole comuni: servizio, fragilità, bisogni inevasi, non autonomia di vita. È politicamente corretto citare queste parole, magari sempre più spesso, tanto più se servono a distrarre da scelte politiche-economiche che vanno in senso opposto: nelle politiche differenziate per regione, e inversamente proporzionali ai bisogni e alle risorse.

Anche se pare sproporzionato confrontarsi con le prospettive evocate con le parole comuni divenute rivoluzione nelle voci, nei gesti, nelle scelte delle donne iraniane (fino all'utopia? certo fino a fare della loro vita un grido che sfida quello delle tante guerre…), è forse importante provare, anche da queste pagine, a mettersi in ascolto di qualcosa che indica una direzione. Nel pieno della pandemia, quando la paura sembrava essere la regola di comportamento, la parola comune della cura ha trovato normale, e giusto, obbedire alla vita e alla dignità piuttosto che alla autorità delle regole. E con buoni risultati.4 Ed è certo che questa disobbedienza in positivo non è stata così rara, anche se non rumorosa, e forse incapace di identificarsi con un progetto formale, multicentrico, in contesti rappresentativi.

Sarebbe auspicabile – e produttrice delle conoscenze che più sono carenti e indisponibili, perché dovrebbero coincidere con tempi di persone capaci di 'cura' – una epidemiologia delle obbedienze alla vita delle persone al di là della routine: non come uno studio-eccezione, ma come indicatore di appropriatezza delle pratiche, trasversale alle discipline, con criteri d'inclusione molto rigorosi e inviolabili, da applicare in tutti gli incontri tra infermiere/i e persone la cui dignità chiede qualcosa che bisogna/bisognerebbe inventare, creando tempo e competenze, per essere 'ricercatrici/ori' di risposte che indirizzano verso personalizzazioni di cura, non guidate da algoritmi fondati sul massimo della probabilità di produrre una decisione, ma sulla capacità di accoglienza, diversificazione, intelligenza condivisa che ha come misura la vita-dignità di queste persone.



BIBLIOGRAFIA


1. Stefanini A. La salute mentale a Gaza. Salute Internazionale 2023. https://www.saluteinternazionale.info/2023/01/la-salute-mentale-a-gaza/.

2. Nardini C. Il virus delle emozioni che uniscono. Forward 2022;27. https://forward.recentiprogressi.it/it/rivista/numero-27-invisibili/articoli/il-virus-delle-emozioni-che-uniscono/.

3. Tognoni G. Acronimi e parole chiave per un (non facile, responsabile) futuro. Assist Inferm Ric 2021;40:190-3.

4. OPI Trento. Restituire ai pazienti la vicinanza dei familiari significa restituire un diritto umano. 2022. https://opi.tn.it/restituire-ai-pazienti-la-vicinanza-dei-familiari-significa-restituire-un-diritto-umano/.