Che fare in tempi con tante domande urgenti e risposte senza tempo?

Gianni Tognoni

Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico, Milano, Italia

Per corrispondenza: Gianni Tognoni, giantogn@gmail.com


Pur nella sua estrema semplificazione, il titolo può essere ragionevolmente considerato come riassuntivo di mesi che hanno visto intensificarsi, nei macro-scenari della realtà globale, così come nelle micro-concretissime cronache italiane e sanitarie, situazioni caratterizzate dalla combinazione di due dati di fatto: a. l’indiscussa evidenza di realtà negative, intollerabili per urgenza e gravità; b. l’assenza-negazione di politiche capaci di passare dalla constatazione della criticità delle situazioni alla creazione di condizioni di risposta adeguate.

a. Da una parte le evidenze di realtà di una gravità intollerabile per la ripetitività-tragicità dell’impatto sui diritti alla vita e al futuro: il genocidio senza sosta del popolo dei migranti, con risposte istituzionali che ne negano di fatto la stessa esistenza, nonostante il consenso assoluto di tutti gli esperti sulla necessità non procrastinabile di politiche di accoglienza; una guerra in/dell’Europa, sempre più senza senso, ma rispetto alla quale la pace non è all’ordine del giorno, perché il mercato delle armi è importante per il PIL; la conferma concreta e sempre più diffusa che per il cambiamento climatico e la più profonda crisi ambientale le uniche risposte sono parole senza impegni e senza risorse; il destino di vittime non quantificabili per guerre di ogni tipo e ovunque, con armi, fame, acqua, etnie, ideologie più o meno religiose che accomunano paesi di Africa, Asia, Medio-Oriente in un destino apparentemente senza orizzonti.

b. Dall’altra parte lo scenario italiano, ancor più ristretto al campo sanitario: incomparabile per tragicità di ‘vittime’, sostanzialmente simile per la logica che lo sottende. Alla ripetizione senza limiti di constatazioni, più o meno corredate di numeri e percentuali, sul degrado di un sistema sanitario che aveva rappresentato il simbolo obbligato e prioritario della rinascita promessa dopo la pandemia, corrisponde la ripetitività dell’assenza di segnali che possano anche solo evocare l’ipotesi e i tempi di una risposta. La diagnosi è certissima: i sintomi che descrivono la gravità concordi, dalle liste di attesa, alle diseguaglianze strutturali; le risorse umane che mancano (al di là dei numeri ballerini che le documentano, gli intervalli di confidenza delle stime che le comprovano danno l’idea di essere persi in un mondo sconosciuto: decine vs centinaia di migliaia di medici, infermieri…) sono il problema di fondo, e rimandano perciò a piani di lungo periodo, senza se e senza ma; le ipotesi di risposta del PNRR si rivelano-confermano come fake news: per una medicina di comunità-prossimità ci sono briciole per le strutture, una insignificante addizione ai cantieri interminabili del 110%, ma nulla che abbia a che fare con le comunità ‘soggetto’ di diritti concreti. E per non creare pericolose illusioni, le ipotesi di piccoli aiuti simbolici, 4 miliardi una tantum, vengono tempestivamente smentite, sullo sfondo di priorità indiscutibili: quella delle armi da produrre-vendere sui mercati più redditizi, e quella addirittura innominabile delle tassazioni – universali, cioè normalmente giuste per una società civile – che sarebbero, per definizione, l’unico strumento reale compatibile per un sistema sanitario che si continua a chiamare, forse per scongiuro, universale, ma che di fatto è stato messo in vendita ai migliori offerenti, nazionali e internazionali.


Il che fare del titolo di questa riflessione editoriale si deve esplicitare anzitutto in una affermazione molto chiara: gli scenari che, delineati come quadro di riferimento, non vogliono essere una dichiarazione di pessimismo. O un invito a una, o a tante, discussioni sulla correttezza o meno dell’una o dell’altra analisi-denuncia. Si vive in una storia-transizione che non ha vie di uscita preferenziali o sul corto periodo. La scelta è (almeno in questa sede…) tra una professione che subisce-si rassegna-guarda-si adatta, e una che interpreta la criticità assoluta come (anche) obbligo-opportunità di ricerca-sperimentazione.

Come tutte le professioni e i ruoli, anche quella infermieristica non può immaginare di rimanere identica in tempi di trasformazioni culturali e di civiltà (ben più profonde di quelle, gravi, contraddittorie, confondenti della politica). Un editoriale non è il luogo per programmare strategie, scadenze, progetti per un tempo, non breve né tanto meno facile, che sta davanti: che è non solo italiano, ma internazionale/globale. Quanto segue non vuole essere altro che un appunto per stimolare-condividere proposte.

1. Per vivere attivamente un periodo di transizione molto complesso e conflittuale, occorre anzitutto uscire dal ‘lutto’ legato a ciò che si deve lasciare, per investire, culturalmente e come immaginario, in un futuro con cui confrontarsi. La necessità di colmare con urgenza la carenza numerica degli infermieri comporta evidentemente una accelerazione di un cambio generazionale, che coincide con il confrontarsi con nuove generazioni molto diverse da quelle attuali: per la loro storia che non ha più le radici in un sistema sanitario sostanzialmente stabile, per aspettative economiche e di ruolo che trovano un contesto sempre più competitivo di mercato, per una polarizzazione più marcata tra modelli ospedalieri e di comunità, tra pubblico e privato, tra funzioni strettamente sanitarie e di servizio, e compiti organizzativo-gestionali. Una cultura propositiva e originale di dis-continuità (dalla formazione, ai tirocini, alla complementarità con altre figure professionali non strettamente sanitarie) rispetto all’esistente dovrebbe essere posta con priorità all’ordine del giorno, come una opportunità che aumenti l’attrattiva della professione e la sua visibilità sociale.

2. In tutta la letteratura che riguarda sanità-cura-sostenibilità-necessità di modificazione di paradigmi (assistenziali, organizzativi, di misure di outcome…), alcune aree-popolazioni ricorrono come priorità assolute: l’universo degli anziani, il mondo della salute mentale e del disagio psichico, la galassia delle disabilità e delle riabilitazioni. L’evoluzione della medicina-dei-medici, con le sue scelte sempre più tecnologico-genetiche, finisce (lo riconosce regolarmente anche la letteratura più accreditata…) per mantenere queste popolazioni in uno stato di orfanità conoscitiva per strategie di intervento, di presa in carico, di cure da parte di team misti, professionali e no. Non è pensabile in/per/con questi universi un investimento culturale e di ricerca, che è anche profondamente politico in termini di rappresentatività e visibilità sociale, dove le competenze riconducibili alle tante professioni non-strettamente-mediche hanno un ruolo più centrale e propositivo?

3. Le stime sul fabbisogno di infermieri sono una di queste sfide: sarebbe utile una rilettura da parte degli infermieri dei fabbisogni basati su stime globali fondate su ore lavorate, e dati medi, per capire, in base ai modelli e ai contesti, quanti infermieri mancano effettivamente, quante e quali figure potrebbero essere integrate nei team assistenziali: si tratta di ragionamenti che sono fortemente influenzati anche dai contesti locali e dalle risorse disponibili, ad esempio sul territorio. Sarebbe anche uno dei modi più concreti per essere parte attiva, indipendente nel dibattito politico ed economico, sull’autonomia differenziata, nel quale è impressionante l’assenza di dati riguardanti la componente infermieristica.


Si dà per acquisito che le strategie di resistenza attiva e creativa, inevitabili e obbligatorie per sopravvivere, difendersi, rinnovarsi, continuino e continueranno. Con una conclusione che è un ricordo al futuro: un grazie, grande, profondo, a Michela Murgia, la ‘accabadora’ che ha fatto anche della incurabilità e della morte (in tempi in cui la politica continua a essere reticente e burocratica invece che accogliente rispetto al diritto umano di andarsene nella dignità…) un grande, condiviso, liberante evento di fiducia in un mondo diverso: riuscendo, come è stato ben sottolineato, a tradurre anche l’alterità-distanza-estraneità della realtà ‘queer’ in una presenza creativa e normale nella società.